Zitara 'O Sorece morto
Nicola Zitara, 'O Sorece Morto, Nicola Zitara Editore, 2004, pp. 195
Nicola Zitara, 'O Sorece Morto, Nicola Zitara Editore, 2004, pp. 195
Il romanzo ‘O sorece morto è raccontato da un uomo ormai anziano che con una lunga analessi s’immerge nel tempo e legge la propria piccola storia all’interno di una grande storia, quella dinastica della sua famiglia, legata ai destini nazionali e sovranazionali. Romanzo di respiro europeo, dunque, se consideriamo che i fatti, svolti nel Mezzogiorno, sono dipesi stricto sensu dalle grandi scelte o non scelte politiche ed economiche italiane ed europee. Considerando le memorie dinastiche, il narratore-protagonista Paolino abbraccia con la sua narrazione un arco temporale vastissimo: dai primi dell’Ottocento, in cui operò il suo bisnonno, Padron Gioacchino Alfano, fino ai giorni nostri. Quasi due secoli. Paolino rivisita con affettuosa inquietudine e civico rammarico la storia della sua dinastia da Padron Gioacchino, appunto, che inaugura un’esaltante stagione di vita produttiva a Paolino stesso, che eredita l’esoscheletro del fallimento dinastico. Questo coincide col fallimento della grande storia del Mezzogiorno. Potrebbero farle da epigrafe le parole di Genso, padre di Paolino, là dove afferma: “Abbiamo cancellato la nostra storia e abbiamo adottato quella degli altri.” La piccola storia è quella dei numerosi personaggi che si affollano intorno a Paolino ragazzo, giovane e infine anziano. Storia piccola questa, non solo per la breve durata rispetto all’altra, ma perché vissuta su un palcoscenico dalla scenografia amara, scolorita, dagli orizzonti ristretti, da interno, perciò incapace di sogni, capace di incubi, come quello finale della nutella. La nutella, appunto, delimita e separa simbolicamente due mondi, due nazioni, due civiltà, due identità, due storie. Solo l’amore di Paolino e Vitulia, quasi romanzo nel romanzo, iniziazione alla maturità, ha toni delicati e romantici sullo sfondo accidentato della guerra e l’apparente solitudine dell’Appennino calabro. Ma alla fine segna anch’esso il declino e la diaspora, il torpore.